martedì 29 luglio 2008

Finalmente cualquno l'a capito!

Tullio De Mauro nel 2004 ha dato una radiografia impietosa della cultura italiana: “Più di due milioni di adulti sono analfabeti, quasi quindici milioni sono semianalfabeti, altri quindici milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e comunque sono ai margini delle capacità di comprensione” necessarie “in una società che voglia non solo dirsi, ma essere democratica”. Sul banco degli imputati va la scuola, come è ovvio. Ma ogni categoria accusa l’altra. I professori universitari si lamentano che la scuola mandi loro studenti in stato disastroso, i docenti delle superiori di ricevere allievi impreparati dalle medie e i loro collegi delle medie puntano il dito contro i maestri.
Francesco Sabatini ha più volte sottolineato che dovrebbe essere radicalmente migliorata la “competenza linguistica”, dai maestri elementari ai professori universitari, e ha affermato che “gli addetti ai lavori dovrebbero dimostrare - magari anche con esami appositi - la loro capacità di comunicare in un buon italiano e non italianese”. Un’azione efficace non può che partire dal vertice di questa piramide in rovina e finalmente, sull’ultimo numero di Lingua Italiana d’oggi, Dora De Maio affronta il problema dell’italiano dei (super?) colti: cioè la lingua dei docenti universitari.
L’analisi non è astratta, ma prevede una verifica sul campo in cui si analizzano dispense e libri di ricercatori, professori associati e ordinari dell’Università di Salerno, scelta perché nelle graduatorie della classifica nazionale di qualità stilata dal Censis è in una posizione superiore alla media degli atenei italiani. Il quadro è disarmante a tutto campo. Si inizia da punteggiatura e grafie errate per arrivare a un lessico approssimativo e quindi a una sintassi traballante, ricca di anacoluti e deficitaria di congiuntivi: insomma un campionario d’errori da matita blu, che si estende poi a un periodare zeppo di ripetizione e spesso ricco di tautologie.
Incominciamo dalla punteggiatura. La virgola è messa fra soggetto e predicato (“Questi studi, arricchiranno la base descrittiva della conoscenza del bambino”) oppure fra predicato e oggetto: “È stato spesso rilevato che gli adulti manifestano, una grande similarità”. Il campionario prevede l’inserimento abusivo di una virgola tra il nome e aggettivo, prima di complementi indiretti retti da un sostantivo oppure scompare là dove dovrebbe esserci. E cos'accade per i punti e virgola e due punti che vengono inseriti nelle frasi spesso a caso.
Avanti con coraggio. I professori universitari spesso dimenticano le regole elementari dell’ortografia nel mettere o togliere accenti a capriccio: capita di leggere in dispense e libri monosillabi accentati senza ragione come "fà", "sò" e "sà", altri in cui l'accento si sostituisce all'apostrofo ("và" per "va'", "pò" per "po'") altri in cui l'accento viene dimenticato: "Ciò che da forma ai comportamenti umani". E con gli apostrofi non va meglio. Accade che in un dire molto compiaciuto con paroloni da far paura un misero apostrofo a sproposito crei quasi un effetto surreale: "Per un verso, rappresenta una conseguenza della costituzione della psicologia in quanto disciplina, da un'altro, si connota come fondamentale per la creazione della disciplina stessa".
Con la sintassi è facilissimo incontrare accordi errati di genere e numero, incertezze nell'uso delle preposizioni, e anche anacoluti. Ecco un brano esemplare: "A proposito degli scritti di argomento socio-antropologico digiacomiano gli si potrebbe obiettare un'analisi della realtà abbastanza mistificante". Qui si riesce a infilare tra un doppio aggettivo da far accapponare la pelle e un altro preceduto da un generico avverbio (un "abbastanza" insignificante), un "gli" del tutto fuori posto. E poi c'è quasi un pudore a usare il congiuntivo, magari una volta sì e l'altra no, come capita in questo brano sconquassato: "La tecnica è frequente nel teatro di Bracco; nella rilettura di un testo, spesso accade che una battuta viene rielaborata come se l'autore preoccupato di adattare un stile troppo letterario, troppo discorsivo alla rappresentazione, trasformando, pertanto, la scrittura letteraria in una scrittura scenica". L'accoppiata tra forma e contenuto resta tutta da decifrare.
Dove l'accademia dà il meglio di sé è nell'invenzione di neoformazioni da brivido. "Il traguardare, mediante la tecnica della dissolvenza permette di riportare in superficie un'altra immagine; la fa affiorare come accadrà, a Ceylon, col fascio di orchidee che sotto i suoi occhi si metamorfisce in un paesaggio fantastico". "Metamorfire" è il suggello d un dire che vuole sfiorare la poesia e cade nel kitsch. Ma capita anche di peggio. Un professore riesce a inventare un significato nuovo del verbo "svanire", in luogo di "far svanire": "Il trascorrere del tempo mescola e svanisce la storia, i destini, le tracce 'in un mare di lava e di scorie'". Una frase da brivido. Ha ragione Sabatini: i professori universitari dovrebbero essere riesaminati nella loro competenza linguistica.

domenica 27 luglio 2008

Randy Pausch

"Posso dirvi che ho fatto un sacco di cose stupide e nessuna di esse mi dà fastidio ora. Tutti gli sbagli ed i momenti in cui sono stato imbarazzato non importano. Ciò che importa è che posso guardarmi dietro e dire 'quasi tutte le volte che ho avuto la possibilità di fare qualcosa di bello ho cercato di afferrarla' ed è da questo che arriva il mio sollievo.
Trovate la passione e seguitela. Non troverete la passione nelle cose, né nel denaro, perché più cose e più denaro avete, più userete queste cose come metro per guardarvi attorno e vedere che c'è sempre qualcuno che ne ha di più. Quindi la passione deve arrivare da qualcosa che vi alimenta dentro".
Randy Pausch, 23 ottobre 1960 - 25 luglio 2008

mercoledì 23 luglio 2008

Intelligentia

In questi giorni, tra le altre cose, c'è l'arduo compito di cercare un nuovo portatile.
Alla fine del turno mattutino, decido di recarmi in ufficio da mia madre, la quale aveva delle offerte di computer da mostrarmi.
Insieme a lei c'era Katiusha, un nome, un perché. Katiusha è la figlia del socio di mio padre e ogni tanto, quando è a casa dal lavoro, passa a far finta di dare una mano in ufficio (in realtà fa ben poco oltre a chattare in messenger).
Mentre scrutavo le varie proposte, sorge - data la mia grande ignoranza - la fatidica domanda: "Ma... quanto è grande uno schermo da quindici pollici?".
Al che, vedo Katiusha con molta nonchalance prendere i suoi due bei pollicioni ed iniziare a contare (neanche in diagonale, e fin lì c'arrivo anch'io!) quanti ce ne vogliono per formare la base dello schermo davanti a lei.
Finito il lavoro: "Questo schermo è più o meno da diciassette pollici, quindi fai conto che sarà un po' più piccolo..."
Grazie, Katy.

martedì 22 luglio 2008

Cos'è "intuito"?!

Mi butto a capofitto nel(i) lavoro(i), nella lettura, nello studio. Perché non devo assolutamente pensare. Ogni volta che mi fermo a pensare vedo la verità balenarmi davanti agli occhi e non voglio ancora ammetterla. Finta, è finita.
Perché dopo avermi lasciata "sola" anche questo sabato - ormai, facendo i conti, è quasi un mese che non lo vedo -, se n'è uscito con un discorso sul fatto che ormai ha bisogno di serietà nella vita, che non è il tipo di persona che salta da un ponte all'altro e via dicendo.
Dire che è stato vago è poco, ma per quanto ne dica la mia amica d'infanzia, non lo vedo come un proviamoci, ma come un addio. Questa volta definitivo.
Probabilmente ormai dovrei essere abituata ad essere lasciata da parte finito il divertimento iniziale, ma questa volta fa male, perché ci credevo realmente. Sembrava - stranamente - la volta giusta.
Ho sempre un intuito infallibile, io.

lunedì 21 luglio 2008

domenica 20 luglio 2008

Festa della Birra 2008

"Grazie ai ragazzi là in fondo che tengono il tempo con il sopracciglio, grazie al palo che ha rotto i coglioni tutta sera, grazie ai carabinieri che stanno per arrivare per farci smettere. E grazie al cazzo."

sabato 19 luglio 2008

La Bambina che Salvava i Libri, Markus Zusak

[Mi rendo conto che è un brano abbastanza lungo, ma non sono riuscita a trovare un solo paragrafo significativo, come mio solito. L'ho amato, l'ho letto - quasi - d'un fiato. E mi sono commossa come non facevo da anni per un libro.]

Vista dall’interno, la fiumana degli ebrei era una tenebrosa confusione di braccia e di gambe. Uniformi lacere. Nessun soldato l’aveva ancora vista, e Max la mise in guardia: «Devi lasciarmi andare, Liesel». Tentò persino di spingerla via, ma la ragazza era troppo forte. Le braccia emaciate di Max non ebbero la forza di respingerla, e lei continuò a camminare tra la sporcizia, la fame, lo smarrimento.
Poi, il primo soldato la scorse.
«Ehi!» gridò, puntandole contro il frustino. «Ehi, ragazza, che stai facendo? Fuori di lì!»
Quando lei lo ignorò del tutto, il soldato si servì del braccio per aprirsi una strada in mezzo allo spessore della gente, spintonandola da parte per farsi largo. Si curvò su di lei, mentre Liesel lottava e notava la strana espressione sul volto di Max Vandenburg: lo aveva già visto spaventato, ma mai così tanto.
Il soldato la afferrò.
Le sue mani le malmenarono gli abiti. Si sentì fino alla pelle le ossa delle sue dita, la giuntura di ogni nocca. «Ho detto fuori!» le ordinò, e trascinò la ragazza di lato, scaraventandola nella ressa dei tedeschi che guardavano. Faceva più caldo, il sole le scottava il viso. La ragazza cadde lunga distesa, dolorosamente, ma si rialzò. Si riprese e aspettò; poi, rientrò nella fila.
Stavolta si fece strada da dietro.
Vedeva distintamente, più avanti, il cespuglio di capelli e vi si avvicinò di nuovo.
Questa volta non poté giungere fino a lui, si fermò. Da qualche parte, dentro di lei, c’erano anime di parole che si arrampicavano fuori, al suo fianco.
«Max», disse. Lui si volse e per un attimo chiuse gli occhi, mentre la ragazza proseguiva: «'C’era una volta uno strano ometto'», disse. Le sue braccia erano abbandonate, ma le mani, sui fianchi, si stringevano a pugno. «'Tra gli scuotitori di parole c’era una ragazzina…'»

Uno degli ebrei in cammino verso Dachau si arrestò.
Rimase assolutamente immobile mentre gli altri deviavano cupi intorno a lui, lasciandolo solo. I suoi occhi vacillarono, e fu tanto semplice. Parole dalla ragazza all’ebreo, parole che adesso si arrampicavano su di lui.

Quando parlò di nuovo, le domande le s’inciampavano sulla bocca. Lacrime cocenti le gonfiavano gli occhi, perché non voleva lasciarle uscire: meglio mostrarsi risoluta e fiera. Lasciare che a fare tutto fossero le parole. «'Sei proprio tu?'» disse. «'È proprio dalla tua guancia che ho preso il seme?'»

Max Vandenburg rimaneva fermo.
Non cadde in ginocchio.
Tutto si era fermato. Lo osservavano.
Restando immobile, Max osservava prima la ragazza, poi direttamente il cielo, che era ampio, azzurro e magnifico. Grandi raggi – travi di sole – piovevano a caso qua e là sulla strada, meravigliosi. Le nuvole inarcarono il dorso per guardarsi indietro quando ripresero a muoversi. «È una giornata così bella», disse, con voce spezzata in tanti frammenti. Un gran giorno per morire. Un gran bel giorno per morire, come questo.
Liesel andò verso di lui. Ebbe abbastanza coraggio da allungare un braccio e toccare il suo volto barbuto. «Sei proprio tu, Max?»
Una splendida giornata tedesca, e la sua folla attenta.
Lui le baciò il palmo della mano. «Sì, Liesel, sono io», e si premette sul viso la mano della ragazza, piangendo fra le sue dita. Piangeva, mentre arrivavano i soldati e un gruppetto di ebrei insolenti stava lì a guardare.
Rimase in piedi mentre lo frustavano.
«Max», piangeva la ragazza.
Poi tacque, quando la trascinarono via.
Max.
Il pugile ebreo.
Dentro di sé, Liesel disse tutto.
Maxi-taxi, non è così che ti chiamava quell’amico di Stoccarda quando combattevi per strada, ti ricordi? Eri tu… il ragazzo dai pugni duri, e dicevi che avresti tirato un cazzotto in faccia alla morte quando fosse venuta a prenderti. Ricordi, Max? Sei stato tu a raccontarmelo. Io ricordo tutto…

Ricordi il pupazzo di neve, Max?
Ricordi?
In cantina?
Ricordi la nuvola bianca con il cuore grigio?
A volte il Führer viene ancora a cercarti. Gli manchi. A noi tutti manchi.
La frusta. La frusta.

La frusta piombò giù dalla mano del soldato, abbattendosi sul viso di Max. Gli lacerò la guancia, facendogli un taglio sulla gola.
Max cadde al suolo, e il soldato si volse contro la ragazza, con la bocca aperta. Aveva denti bianchissimi.
Un lampo improvviso davanti ai suoi occhi. Ripensò al giorno in cui avrebbe voluto che Ilsa Hermann, o almeno la fida Rosa, la pigliassero a schiaffi, ma né l’una né l’altra l’aveva fatto; quella volta, però, non rimase delusa.
La frusta le lacerò il colletto, raggiungendola alla scapola.
«Liesel!»
Conosceva quella persona.
Mentre il soldato faceva roteare il braccio, la ragazza intravide negli intervalli della folla un atterrito Rudy Steiner che la chiamava. Vedeva la sua faccia stravolta, i suoi capelli gialli. «Liesel, vieni via di lì!»
La ladra di libri non veniva via.
Serrò gli occhi e si prese la seconda, bruciante frustata, poi un’altra, finché il suo corpo non urtò il selciato tiepido della strada, che le riscaldò la guancia.
Arrivarono altre parole, stavolta dal soldato.
«Steh’ auf
Quelle due economiche parole erano rivolte non alla ragazza, ma all’ebreo. Il concetto venne poi sviluppato: «In piedi, lurido stronzo, figlio di puttana ebreo, in piedi, in piedi…»

Max si sollevò.
Solo un altro sforzo, Max.
Solo un altro sforzo, sul freddo pavimento dello scantinato.

I suoi piedi si mossero.
Si trascinarono avanti, e riprese il cammino.
Le sue gambe vacillavano e le mani strofinavano i segni dello scudiscio, per alleviarne il bruciore. Quando cercò di guardare nuovamente Liesel, le mani del soldato erano sulle sue spalle insanguinate e lo sospinsero via.

Arrivò il ragazzo. Le sue gambe smilze si piegarono e chiamò qualcuno alla sua sinistra.
«Tommy, vieni qui ad aiutarmi. Dobbiamo portarla via. Sbrigati, Tommy!» Sollevò la ladra di libri per le braccia. «Su, Liesel, ti devi allontanare dalla strada.»

Quando fu in grado di reggersi in piedi, guardò le facce attonite e raggelate dei tedeschi. Si concesse di accasciarsi ai loro piedi, ma solo per un momento. Un graffio parve strofinarle un fiammifero su un lato del viso, là dove aveva urtato il terreno. Ogni pulsazione lo faceva fremere.
Giù, in fondo alla strada, vedeva ancora confusamente le gambe e i talloni dell’ultimo ebreo in marcia.

Il viso le bruciava e soffriva acutamente alle braccia e alle gambe, un intorpidimento a un tempo doloroso ed estenuante.
Si mise in piedi.
Irritata, prese a camminare, poi a correre giù per la Münchenstrasse, trascinandosi sugli ultimi passi di Max Vandenburg.
«Ma che cosa fai, Liesel?»
Si divincolò dalla presa delle parole di Rudy, ignorando la gente che la osservava. Quasi tutti rimasero muti, come statue dai cuori pulsanti. Come spettatori delle ultime fasi di una maratona.
Liesel gridò ancora, con i capelli sugli occhi: «Per favore, Max!»
Dopo circa trenta metri, mentre un soldato si voltava, la ragazza sentì delle mani che le allacciavano la vita da dietro, mentre il ragazzo della porta accanto la faceva cadere sulle ginocchia, ricevendo i suoi pugni come se fossero regali. Accoglieva le mani e i gomiti ossuti di Liesel con appena qualche breve gemito. Accettava i violenti, goffi spruzzi di saliva e le lacrime come se fossero carezze sul viso, mentre la immobilizzava

• • •

Un ragazzo e una ragazza avvinti in mezzo alla Münchenstrasse.
Sconsolati sulla strada.
Insieme osservarono la gente scomparire. La guardarono dissolversi nell’aria.

lunedì 14 luglio 2008

Senza Titolo

Di nuovo sul mio letto, dopo tanto tempo. E ci rimarrò fino a settembre, perché di tornare a Milano proprio non se ne parla. Se Milano è già di per sé una città solitaria, d'estate lo è maggiormente, completamente vuota se non per qualche turista qua e là.
La sessione d'esame è andata abbastanza da schifo, ma non me ne lamento. So che la colpa è mia, perché mi riduco quasi sempre all'ultimo momento. E, in ogni caso, non ho voglia di parlarne.
C'è un foglio bianco davanti a me. E non ho la minima idea di cosa scriverci sopra. In realtà, i fogli sono due. Uno è per un compleanno, e non so quanto sia bene espormi in questa lettera. L'altro, è per una lettera a me stessa. Perché una delle mie tante tare mentali è quella di scrivere lettere a me stessa, chiuderle e metterle in qualche libro, per poi rileggerle dopo anni.
Per il resto, poco di rilevante. Me ne andrò qualche giorno da mia nonna paterna, che abita in mezzo al nulla, giusto per isolarmi un po'. E spero che sabato sia bello, perché c'è la festa della birra - alla quale, ahimè, non berrò - e devo vedere Veronica (che ha passato l'orale di tedesco, perché facciamo un cervello in due, quindi metà per uno va più che bene).
Ah, per la cronaca, questo è il nuovo look.


lunedì 7 luglio 2008

Bontà, Tim Parks

Dico con cautela: «Non sembravi così preoccupata per lei quando è nata. Cioè, eri un po' distaccata e meccanica. A cosa si deve questo grande cambiamento?».
Lei si stringe nelle spalle. Non è tenuta a dare spiegazioni, dice. Non lo sa. Dal canto suo potrebbe chiedermi come mai a un tratto ho abbandonato le speranze che certo non mi mancavano all'inizio, quando interpellavo tutti gli specialisti. Organizzavo l'intervento. E ora vorrei che morisse. Non è giusto, dico io. Ascoltiamo il fievole ticchettio di un orologio a parete. Poi lei dice: «È solo che voglio vederla sorridere di nuovo. Quel giorno, quando ha sorriso, mi sono innamorata di lei».

mercoledì 2 luglio 2008

Es Ist Schnee Gefallen, Anonym

Es ist Schnee gefallen
Und ist es doch nit Zeit,
Man wirft mich den Ballen,
Der Weg ist mir verschneit.

Mein Haus hat keinen Giebel,
Es ist mir worden alt,
zerbrochen sind die Riegel,
mein Stüblein ist mir kalt.

Ach Lieb, laß dich’s erbarmen
Daß ich so elend bin,
und schleuß mich in dein Arme!
So fährt der Winter hin.